#POGBACK, un atlante emotivo
Una delle foto più iconiche della storia recente della Juventus l’ha scattata Simon Stacpoole all’Etihad Stadium di Manchester il 15 settembre 2015. Alvaro Morata ha appena segnato il gol del 2–1 contro il City nella gara d’esordio del girone D di Champions League e, alla maniera del Fernando Torres dei bei tempi andati, “scivola come un torero” sotto il settore dove sono assiepati i tifosi bianconeri: con lui ci sono Paulo Dybala, Juan Cuadrado e Paul Pogba, in quella che è l’istantanea perfetta per descrivere il nuovo corso che la Juve ha voluto avviare dopo aver perso la finale di Berlino contro il Barcellona più forte di tutti i tempi. Giovani, forti, futuribili, sfacciati, impertinenti, stilosi, instagrammabili: sono loro i nuovi volti della squadra che vuole tornare sul tetto d’Europa, il manifesto di come la Vecchia Signora intende guardare al futuro lasciandosi alle spalle un passato, glorioso e vincente, ma pur sempre passato.
Da quella foto sono passati quasi sette anni: la Juventus è tornata un’altra volta in finale - persa, ovviamente, contro il Real Madrid di Zidane e Cristiano Ronaldo nel bel mezzo del suo three-peat - prima di abiurare qualsiasi tipo di programmazione a medio-lungo termine e di sgretolarsi anacronismo dopo anacronismo, instant team dopo instant team, al grido di “abbiamo sempre fatto così”; Morata è andato via - Real poi Chelsea poi Atletico - è tornato e poi andato via di nuovo in attesa, chissà, di tornare ancora; Cuadrado ha iniziato a fare i conti con Father Time e si è scoperto addirittura potenziale pedina di scambio nella trattativa che potrebbe portare Zaniolo a Torino; Dybala è ancora in cerca di squadra e autore, sperando che non sia lo stesso del suo procuratore Jorge Antun; e Paul Pogba, andato via al termine di una stagione in cui aveva reso possibile quasi da solo quella rimonta in campionato “statisticamente insopportabile” di cui aveva detto e scritto Mario Sconcerti, ha deciso di tornare dove forse era sempre stato senza che ce ne accorgessimo.
Ricordo bene il giorno dell’estate 2016 in cui il passaggio al Manchester United divenne ufficiale dopo mesi di speculazioni, mezze frasi (non) dette a mezzo social, commercial dedicati ad hoc dallo sponsor tecnico: ero in macchina con la mia ragazza di allora, di ritorno da uno scorcio di vacanza in Calabria, la testa stancamente appoggiata sulla mano mentre il traffico scorreva più a rilento del solito, la mente ovunque tranne che in quell’inferno di caldo, asfalto e lamiera; e mentre lei parlava di come una volta a casa avremmo già dovuto iniziare a preparare le valigie per Berlino e la Juventus comprava Higuain, Pjanic, Benatia e Dani Alves, io non facevo altro che pensare a Paul Pogba, a chi glielo aveva fatto fare e a perché lo avesse fatto.
Soltanto un’altra volta mi ero sentito così: era il 2001, era Zinedine Zidane (toh!), era il Real Madrid (ri-toh!), era la signora Veronique che si era improvvisamente accorta dopo cinque anni che a Torino non c’era il mare - non era vero, ma era quello che ci siamo raccontati per farcene una ragione e illuderci che non dipendesse tutto dalle legittime ambizioni del più forte di tutti - era la Juventus che con quei 150 miliardi comprava Buffon, Nedved, Thuram e Salas senza che a me importasse granché. Perché il dolore era troppo grande, a 14 come a 29 anni.
Oggi che di anni ne ho (quasi) 35 e ho cambiato auto, vita e fidanzata - che poi è diventata moglie - ho notato come Pogba sia ancora ciò che mi tiene ancorato a una dimensione che ho scoperto essere diventata improvvisamente scomoda, la mia unica costante emotiva e passionale in un periodo in cui ho deciso di ridimensionare l’emotività e la passione collegate al calcio e alla Juventus. O, meglio, collegate alla visione del calcio come tifoso della Juventus.
Non è questo il tempo e il luogo in cui spiegare come e perché l’ultimo anno e mezzo di partite abbiano trasformato la gioia per una vittoria e la rabbia per una sconfitta in una sorta di blanda indifferenza verso qualsiasi cosa accadesse in quei 90' che un tempo costituivano l’unico e ultimo motivo di senso allo scorrere di settimane, mesi e stagioni; basti sapere che, per la prima volta nella mia vita, la scelta di papà di disdire DAZN è stata approvata anzi appoggiata - c’entrano i costi, ma non solo - che il fatto che durante le prime quattro gare di campionato mi troverò chissà dove tra California, Nevada, Arizona e Utah senza alcun tipo di connessione o, addirittura, il non sapere quante e quali partite potrò (o vorrò) vedere, è stato accettato con un misto di sollievo e fatalismo. Lo stesso che ha accompagnato la decisione di non scrivere e commentare di e sulla Juventus stessa fino a data da destinarsi, a prescindere dal medium, dai risultati e dalla forma.
Eppure sono bastati un reel e un hashtag per far sì che tutto questo fosse dimenticato, per far sì che ne valesse ancora la pena, per far sì che l’abulia tecnica e visiva che era (ed è) alla base di questo processo di anestetizzazione fosse messa da parte, anche solo per lo spazio di un minuto, un’ora, un giorno. Paul Labile Pogba è tornato e con lui tutto ciò che di bello e unico c’era e c’è nella beata e salvifica inconsapevolezza del tifoso che può permettersi di ignorare il contesto, l’oggettività del campo e del gioco che non mentono mai, la fallacia insita nella logica degli eterni ritorni che nel calcio del XXI secolo non paga quasi mai i dividendi sperati.
Ci sono tantissimi motivi per cui non è né lecito né giusto pensare che quello che torna sia lo stesso fuoriclasse generazionale che andò via o che sia lui la soluzione a un numero pressoché infinito di problemi che in tanti stanno facendo finta di non vedere nascondendosi dietro frasi e convinzioni fuori dal mondo e dal tempo; eppure è stato bello sentire, prima di tornare alla dura realtà, che in qualche modo tutto andrà bene per il solo fatto che lui c’è, di nuovo, come prima e più di prima, uno degli ultimi calciatori rimasti in grado di far dimenticare le controindicazioni oggettive trasformandole in speranze soggettive. È la parte bella e migliore del calcio, quella che ti fa sentire vivo, che ti riporta a suoni, odori e sensazioni che credevi di aver dimenticato, che ti fa provare quel brivido che non puoi accendere e spegnere a piacimento per quanto talvolta sarebbe necessario. Come innamorarsi di nuovo, in estate, in attesi che ritornino il cinismo e il realismo dell’autunno e dell’inverno.
Ecco, magari un’occhiata a Livescore, stretto nell’abbraccio soffocante dei 50 gradi della Death Valley, varrà davvero la pena darlo. Perché, pare, sono ancora vivo, sono ancora in grado di sentire qualcosa, “nescio sed fieri sentio et excrucior”.
Solo grazie a te, Paul, in attesa che torni tutto il resto, se mai accadrà.
Intanto ho comprato un durag, sei tornato tu e mi va bene così.