Showtime, di Jeff Pearlman. Una recensione

Claudio Pellecchia
5 min readJun 15, 2022

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Nel 2011, in occasione del cinquantenario del trasferimento dei Lakers da Minneapolis a Los Angeles, Mark Heisler scrisse sul Los Angeles Times un lungo articolo in cui raccontava come all’inizio il rapporto tra gli angeleni e la loro squadra di basket - nel 1984, via San Diego, sarebbero arrivati anche i Clippers e Donald Sterling, da quel momento condannati per sempre a essere considerati come ‘gli altri’ - non fosse questo granché; addirittura il grande Jerry West, l’uomo effigiato sul logo NBA, era costretto a girare per la città a bordo di una decappottabile, armato di megafono modello “è arrivato l’arrotino”, per provare a convincere i passanti ad accorrere in massa alla L.A. Sports Arena al 3939 di South Figueroa Street per la partita della sera. La situazione sarebbe cambiata radicalmente nel giro di qualche anno: la costante presenza a bordocampo di Doris Day - una delle poche dive a non rifiutare i biglietti omaggio che i Lakers regalavano ad attori e attrici per crearsi un minimo di credibilità - avrebbe segnato l’inizio di una fusion con Hollywood che avrebbe conferito ai Lakers quel divismo e quell’aurea glamour e patinata che non avrebbero perduto mai più, alimentando praticamente senza sosta la fama della squadra di stelle (dello sport) tifate dalle stelle (del cinema).

E così, nemmeno vent’anni dopo il girovagare di West per le strade di Exposition Park, l’arrivo dal Michigan di Earvin ‘Magic’ Johnson - prima scelta assoluta al draft del 1979 - segnava l’inizio di una nuova era. Un’era di colori, suoni, sensazioni e percezioni che non c’erano stati prima e non ci sarebbero stati poi; un’era di “musica alta, seni prosperosi, urla adoranti, tifosi agghindati di tutto punto”; un’era di basket spettacolare, veloce, diretto, immediato, ma anche di rivalità feroci e di personalità ingombranti e ingestibili; un’era di eccessi, di genio e sregolatezza, di luci e ombre, di cadute e risalite, di morti e resurrezioni, non tanto e non solo sportive; un’era che poteva essere possibile solo a Los Angeles e solo negli anni Ottanta. L’era dello Showtime.

E Showtime è anche il titolo del libro di Jeff Pearlman, scrittore e giornalista per Sports Illustrated, Newsday e non solo, che ripercorre un decennio unico e irripetibile interrottosi bruscamente il 7 novembre 1991 quando lo stesso Magic Johnson annunciò al mondo di essere sieropositivo e, per questo, di essere costretto a ritirarsi dal basket con lo Showtime “che se ne andò insieme a lui”. Pubblicato per la prima volta nel 2014 dalla Gotham Books, l’edizione italiana è curata dalla casa editrice 66thand2nd - traduzione dell’ottimo Lorenzo Vetta - che ne ha fatto il volume numero 54 della sua celebre collana Vite inattese dedicata ai grandi personaggi dello sport. E, in effetti, considerare quei Lakers - capaci di vincere cinque titoli e di raggiungere nove finali (di cui quattro consecutive tra il 1981 e il 1985) in undici anni - come un’entità unica e indivisibile è forse l’unico modo possibile per mettere ordine in tutte le vicende umane e sportive che hanno contribuito ad alimentarne la leggenda individuale e collettiva.

Attraverso ricordi, interviste, aneddoti, Pearlman catapulta il lettore in un’atmosfera che lo scorrere fluido delle pagine rende di volta in volta più viva, anzi vivida. Non c’è solo basket, non può esserci solo il basket, perché c’è anche tutto il resto, c’è il contesto, c’è lo star system che avvolge e travolge, ci sono le groupies, le mogli, le amanti, gli agenti, gli avvocati, i giornalisti, i locali notturni, le feste all night long alla Playboy Mansion, il Forum di Inglewood, le ville principesche a Pacific Palisades o a Bel Air; perché lo Showtime “era sia una filosofia cestistica che una strategia per riempire l’arena. Showtime erano le Laker Girls con le loro minigonne. Showtime era Jack Nicholson seduto in prima fila con Dyan Cannon”. Un dettaglio non trascurabile e che costituisce il vero punto di forza del libro, che risulta accessibile a tutti e che, per molti versi, contribuisce a spiegare anche a chi non è appassionato i retroscena relativi al come e perché la NBA sia diventata il prodotto globale e globalizzato che conosciamo oggi. I ‘die-hard fan’, però, possono stare comunque tranquilli, a prescindere dal fatto che si tratti di tifosi Lakers o meno: la loro voglia di saperne di più viene appagata praticamente fin dalle prime pagine, quando il racconto della genesi dello Showtime viene filtrata attraverso incredibili slidin’doors e personaggi che abbiamo sempre considerato secondari ma che tali non solo e non sono stati mai come Jack McKinney, Jack Kent Cooke, Claire Rothman e Spencer Haywood.

In seguito il susseguirsi delle stagioni viene raccontato attraverso quei singoli episodi chiave - una partita, un infortunio, uno scandalo o una polemica sui giornali - e quelle digressioni necessarie a contestualizzare il momento e a far toccare con mano l’evoluzione dei personaggi ben al di là di ciò che veniva trasmesso in televisione e scritto sui giornali. Due, in questo senso, le figure ricorrenti e dominanti: Jerry Buss, l’uomo che ha visto e concepito lo Showtime prima di tutti dentro e fuori dal campo, colui che ha mostrato alla polverosa e decadente NBA di fine anni Settanta la strada da percorrere per arrivare ad essere il modello di riferimento quando oggi parliamo di sport entertainment ben prima dell’avvento di David Stern; e Magic Johnson, l’unico uomo al mondo per cui il soprannome viene prima del nome di battesimo, il playmaker visionario che ha rivoluzionato il gioco nella sua componente tecnica, fisica e atletica, la star che ha spiegato a tutti i suoi contemporanei - e anche a quelli che sono venuti dopo di lui - come si comporta, come vive e come parla una star, nel bene e nel male. Il carisma dei due è qualcosa di reale, di tangibile, che prende vita pagina dopo pagina, e che finisce con il condizionare le vite e le scelte di tutti quelli intorno a loro, indipendentemente dall’esserne causa o conseguenza: qualcosa che, quindi, si ritrova anche nell’ingestibilità di Kareem Abdul-Jabbar, nei peccati di hybris di Paul Westhead, nelle smanie di protagonismo di Norm Nixon, nella progressiva trasformazione di Pat Riley da allenatore illuminato e illuminante a spietato dittatore della panchina.

Più in generale, comunque, la scrittura di Pearlman non risulta mai ridondante, appesantita dall’abbondanza di incisi e precisazioni oppure inutilmente retorica o enfatica anche in quei passaggi che sembrerebbero richiederlo. Il libro, da cui è stata tratta la fortunata serie Winning Time della HBO, è ampio ma non impossibile e cattura il lettore dalla prima all’ultima pagina, pur trattando (e trattandosi) di una storia di cui molti conoscono già il finale. Una storia che però, come si legge a pagina 529, finita non lo è perché “i Lakers dello Showtime esistono nei filmati, nei libri, grazie al passaparola, nei video di YouTube, negli articoli di giornale ingialliti, in LeBron James, Kevin Durant, Chris Paul e in tutti i giocatori di oggi che aspirano a ricreare la stessa brillantezza”. Una storia che, quindi, vale la pena continuare a raccontare e farsi raccontare. Soprattutto in questo modo.

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Claudio Pellecchia

Avvocato (delle cause perse) mancato, giornalista e scrittore di e per sport