Sulle lacrime di Dybala, in breve

Claudio Pellecchia
3 min readMay 17, 2022

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Guardando Paulo Dybala in lacrime al termine della sua ultima partita con la maglia della Juventus ho capito di non aver mai capito nulla, o comunque di aver di molto sopravvalutato l’importanza che i social network hanno nel racconto dello sport e, più in generale, nella nostra vita. Il giocatore che, più di tutti, aveva diviso il tifo juventino negli ultimi sette anni dal punto di vista della narrazione e della differenza tra reale e percepito, era lì in mezzo al campo, come un bambino cui avevano tolto il pallone - metaforicamente e non - mentre 40.000 persone applaudivano, o piangevano, o applaudivano e piangevano, con e per lui. Cosa ne era stato dell’odio, della bile e del livore a mezzo post che ormai da troppo tempo facevano parte della sua e della nostra quotidianità e che mi avevano portato a scrivere questo articolo per Rivista Undici?

La verità è che forse tutte queste cose non esistono, anzi probabilmente non sono mai esistite, se non all’interno di una bolla piccola e insignificante in cui più il problema è complesso più la soluzione cercata, anzi richiesta, è semplice, deve essere semplice; e non c’è nulla di più semplice che vomitare su un calciatore ricco e famoso tutto il peso delle aspettative mancate e delle delusioni da ciò che poteva essere e non è stato, a livello individuale e collettivo.

Dybala è un giocatore che a un certo punto della sua carriera recava con sé premesse e promesse di grandezza diverse dal livello che ha poi effettivamente raggiunto, per motivazioni tattiche, tecniche e psicologiche che sarebbe troppo lungo e noioso approfondire qui e ora. Ma è anche un giocatore che, prendendo a prestito una felice espressione di Karim Benzema - che è di un’altra categoria, non solo rispetto a Dybala - gioca “para la gente que sabe de futbol”, per tutti quelli che il calcio lo guardano (anche) per il solo gusto di farlo, per divertirsi, per godersi e godere di una manifestazione di bellezza eterea talvolta scissa dalla mera utilità. Quindi per tutti quelli che vanno allo stadio, tutti quelli che ieri hanno partecipato alla sua commozione, aprendosi a un saluto spontaneo, sentito, che ha fatto dimenticare per un momento il silenzio della Juventus nel giorno in cui a lasciare non era solo Giorgio Chiellini ma anche il nono marcatore all time della sua storia ultra-centenaria.

Lo stadio, la gente, ha preso una posizione e ha dato una risposta, anzi una lezione. Netta, legittima, discutibile nella misura in cui si cerca a tutti i costi un buono e un cattivo in una vicenda in cui tutti non hanno detto tutto, ma di certo quella che deve valere di più. Per Paulo Dybala e per tutti noi. Perché è per la gente che si inizia a giocare ed è per la gente che, ancora oggi e nonostante tutto, si gioca, ci si emoziona, si esulta, si piange.

Magari tra qualche settimana il fu numero 10 andrà sul serio all’Inter e allora tutto quell’affetto si trasformerà in qualcosa d’altro, qualcosa di opposto e spiacevole, ma questo fa parte del calcio, della sua componente ancestrale e viscerale da fenomeno socio-culturale che è in grado di spiegare la realtà di più e meglio di tante parole. Dybala lo sa e nel caso ci farà i conti, ma in questo momento non conta. Esattamente come i post sui social che mi sembravano un mondo reale e ingiusto e che invece non erano altro che la sbiadita proiezione di una realtà marginale e fastidiosa. Una realtà da ignorare.

In bocca al lupo ragazzo e continua a divertirti.

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Claudio Pellecchia

Avvocato (delle cause perse) mancato, giornalista e scrittore di e per sport